martedì 4 aprile 2017

Il Fortore e i Paesi aziende

La valle del Fortore
di Igino Casillo*

È consuetudine che, periodicamente, si riproponga il dibattito sul divario economico tra Nord e Sud d'Italia e con esso quello dello spopolamento e isolamento delle aree interne. Una dualità che ha cause antiche e che vede contrapposti, due territori, due modi diversi di interpretare lo sviluppo. Il sud e il nord, l'osso e la polpa come li immaginava Manlio Rossi Doria.


In cinquant’anni di politica meridionalistica, si sono fatti notevoli passi avanti in termini di dotazione infrastrutturale del territorio, parte del divario è stato colmato ma, nei fatti, non si è mai realizzato quello sviluppo economico che era nelle aspettative.

Nel frattempo è arrivato l’eolico. La corsa all'energia buona, all’energia pulita, ha impattato il paesaggio con le sue torri, ma non ha spalmato il benessere economico tra i suoi abitanti, come promettevano alcuni e speravano in tanti. 

E oggi che la crisi economica si è istituzionalizzata ed ha ridotto notevolmente gli spazi di intervento da parte del governo centrale, se non si darà spazio a nuove forme di residenza che portino nuova linfa demografica e culturale e, allo stesso tempo, non si creeranno condizioni economiche per favorire la stabilizzazione dei residenti, tanti comuni come i nostri, rischiano seriamente di scomparire dalla carta geografica.

E allora, perché il temuto spopolamento resti tale, il miglioramento del grado di vivibilità e la creazione di nuove occasioni di lavoro diventano la priorità e, allo stesso tempo, la variabile strategica da manovrare velocemente. 

Come? Prima di ogni altra considerazione, tuttavia, va sfatato il convincimento secondo il quale, le aree interne meridionali non hanno risorse e, conseguentemente, non hanno alcuna possibilità di sviluppo.

Non è vero. È un luogo comune caro a chi, probabilmente, è inadeguato a gestire queste problematiche e poco accorto ai destini dei territori e della gente che vi abita.

Il meridionalista Pasquale Saraceno, sosteneva infatti che "non esistono aree prive di risorse e per questo naturalmente condannate all’emarginazione. Ci sono solo territori con opportunità diverse" o, altrimenti detto, meno privilegiate rispetto ad altre.

Nelle aree interne come il Fortore le risorse ci sono sempre state. C’erano in passato e ci sono oggi, bastava cercarle allora, bisogna farlo adesso. Ma allora, se le risorse ci sono perché la ripresa tarda ad arrivare? Potrebbe essere una domanda legittima.

Perché nella realtà le cose sono più complesse è la risposta altrettanto vera e non si può credere che l’inversione del trend possa avvenire con palliativi e interventi, a volte inutili, imposti anche in spregio alle attese del territorio e della sua popolazione.

Al contrario, solo una paziente e non facile ricerca di nuove sintonie tra condizioni ambientali non modificabili e aspirazioni al miglioramento può costituire una valida premessa per provare a conseguire l'obiettivo, ben consapevoli che, in molti casi, gli ostacoli non attengono tanto a cause economiche o ambientali, quanto piuttosto alla incapacità di veicolare le risorse in funzione dello sviluppo.

Serve allora, e subito, un cambio di passo. E' necessario aprire porte lasciate chiuse che facciano entrare aria nuova, provare a percorrere strade non tracciate che rappresentino il giusto compromesso tra innovazione, cultura del territorio e politica di riferimento, e, infine, è fondamentale mettere insieme tutte le energie di cui si dispone. 

La politica, interprete delle istanze che giungono dal territorio e dai suoi abitanti, l’imprenditoria, che con metodo e capacità deve indicare le risorse e, infine, il forte sentimento che lega gli abitanti al proprio territorio, che potrebbe rappresentare il vero collante per un progetto di cui individualmente nessuno potrebbe mai farsi carico, perché necessariamente ambizioso e comunque rischioso.

Un’idea tra tante, vede amministratori, imprenditori e residenti, che stanchi della continua litania dell’attesa, si appropriano del proprio territorio e del proprio futuro e insieme sperimentano un diverso modello imprenditoriale che, coniugando obiettivi specificatamente economici con altri di natura sociale, dia vita ai “Paesi aziende”, ad un business sociale che dia finalmente vitalità a questi luoghi, trasformandoli finalmente in una vera opportunità di lavoro per i giovani.

“Paesi aziende” costituite nelle forme giuridiche più appropriate, con un consistente capitale sociale distribuito tra tutti i residenti, e non solo, paesi aziende orientate al profitto e quindi gestite con le regole dettate dai principi dell’efficienza, aziende operanti possibilmente in settori ad alta intensità di lavoro e che uniscano l’esigenza e la remunerazione della risorsa lavoro con la necessità imprescindibile di remunerare anche il capitale investito, producendo e commercializzando beni che per vocazione e cultura hanno sempre contraddistinto questi territori.

Aziende che si propongano allo stesso tempo l’obiettivo del profitto e quello della ricchezza sociale, che siano parte di un modello più umano, quello della promozione dell'economia sociale, la cui particolarità sta proprio nella valorizzazione del legame degli abitanti con il proprio territorio.

Una o più aziende per ogni comune, ognuna con una specificità diversa, ma tutte accomunate dal medesimo modello organizzativo e tutte possibilmente consorziate nella commercializzazione dei prodotti.

Nulla di nuovo nella letteratura d’impresa, ben consapevole che ogni approccio metodologico che non sia supportato da certezze scientifiche, non appartiene tanto alla sfera della verità ma a quella del convincimento personale. 

Se riguarda poi una scienza sociale come l’economia, le sfumature di incertezza sono sicuramente maggiori e più marcate perché la variabile indipendente, quella non controllabile, è rappresentata proprio dall’uomo, dalla sua imprevedibilità, dalla sua mentalità e dal suo livello di conoscenza.


È una sfida che coinvolge tutti e richiede coraggio e impegno e comporta inevitabilmente una dose di rischio. Tuttavia, riprendendo le affermazioni di Don Milani e di Mohammad Yunus, se il destino di questi territori, “ci interessa", allora, “si può fare”.

*docente di Economia aziendale 

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